Atë natë si sot 67 vjet djajtë e ferrit komunist dolën nga terri e në terr e morën Z.Jonuz Kaceli e nuk ia kthyn ma gjinit familjar, ia morën nanës, nuses e fmijve të vet. Demonët Enver Hoxha e Mehmet Shehu ma vranë gjyshin! Jo une nuk harroj e nuk ju fal! Djalli Enver Hoxha me firmën e tij dhe dora gjakatare e Mehmetit që i mori jetën në tortura. E gjithë kjo përse? Sepse ai donte Lirinë si Sabihaja shkencëtarja e bukur e hijshme dhe Martirët e tjerë! 22 Martirë: një gjerdan me 21 Burra të Kombit, si 21 Diamanta dhe 1 Grua të vetme, Një Diamant Blu si deti që ajo aq shumë e studionte dhe dashuronte! Lavdi memories së tyne! I përjetshëm kujtimi juj e dheu u qoftë i lehtë! Por jo, toka arbnore nuk ashtë ende e lehtë mbi ju, pasi ajo mban peshën e fajit që ende nuk keni Paqë sepse nuk patët Drejtësi!
LA MACABRA SETTIMANA DEL FEBBRAIO DEL 1951
Quella notte di 67 anni fa i demoni dell’inferno comunista uscirono dalle tenebre e tra le tenebre si portarono via il nonno Jonuz Kaceli senza più riportarlo in seno alla famiglia, togliendolo per sempre alla madre, alla sposa e ai suoi figli. I diavoli Enver Hoxha e Mehmet Shehu uccisero mio nonno! No io non dimentico e non vi perdono! Enver Hoxha con la sua firma e Mehmet Shehu con la mano sanguinaria che lo massacrò fino a finirlo sotto tortura. E tutto questo perché? Perché amava la Libertà come anche la scienziata Sabiha piena di grazia e bellezza e come gli altri Martiri! 22 Martiri! Un collier con 21 Uomini della Patria come 21 Diamanti ed una sola donna, un Diamante blu come il mare che lei tanto studiava ed amava! Onore e gloria alla loro Memoria! Che siano ricordati in eterno e la terra vi sia lieve. No, la terra albanese su di voi non è lieve, poiché essa porta il peso della colpa che ancora non avete Pace perché non avete avuto Giustizia!
Di seguito capitolo tratto dal II Volume di “Vivi, solo per testimoniare” di Padre Zef Pllumi dove egli racconta il clima di terrore di quei giorni…
FEBBRAIO 1951
Era una giornata tersa e fredda di fine febbraio quando domandai a padre Pashk Prela il permesso di poter andare a trovare il mio amico don Zef Bici. Anche egli lo stimava molto e diceva di lui che era un vero talento, cosa del tutto vera, e mi disse di portargli anche i suoi saluti.
In quel tempo la Chiesa parrocchiale si trovava dove oggi c’è l’Hotel Peza, proprio vicino alla piazza principale di Tirana(nota l’autore Padre Zef Pllumi scrive nel 1995 quest’opera raccontando in flashback i fatti del passato).
Arrivai da loro prima delle 7 del mattino. I due parroci, vivevano nella stessa casa. Don Mark Dushi e don Zef Bici erano uno più bravo dell’altro ed inoltre erano anche di bell’aspetto ed in città attiravano molta invidia. A quel tempo con loro viveva anche Tonin Harapi, il quale faceva il pianista presso la Filarmonica di Stato e seguiva anche gli studi superiori di musica. Quando entrai mi accolsero tutti con grande gioia e con già sul fuoco il bricco del caffè. Ci sedemmo tutti e quattro e prendemmo il nostro caffè. Il caffè caldo nei giorni freddi lo si gusta anche di più e maggior piacere. Finito il caffè, iniziammo le nostre chiacchiere. Don Mark capovolse tutte le tazzine e disse: “Ora leggiamo i fondi.”
“E come li leggiamo?” gli dissi io. “Noi non siamo mica zingari che prevedono il futuro!”
“Tutti noi esseri umani” mi disse “siamo pressoché uguali: gli zingari leggono i fondi del caffè per guadagnare qualche soldino, mentre noi per scherzare e divertirci, ma tanto né noi né loro, del futuro, sappiamo predire un bel nulla.” E ridemmo. Il primo a leggere il fondo del caffè fu il musicista, Tonin, perché era il più giovane. E poi toccò a me, e imitando gli zingari dissi a Tonin queste parole:
“Una lettera riceverai; ti rattristerai; ma un viaggio farai; e infine c’è anche un cuore in pena che arde per te!”
Scoppiò una risata fragorosa e tutti mi chiesero quando mai avessi vissuto accanto agli zingari da saperli imitare così bene. Ora non ricordo bene cosa dissi ai due preti ma so che ridemmo tutti.
Tonin sebbene fosse prestissimo, si stava preparando per andare al lavoro e così anch’io dopo essermi congedato con i miei amici, uscii insieme a lui. Ci separammo a metà strada, lui andò verso destra in direzione della Filarmonica di Stato, mentre io verso il centro, lungo corso Stalin (al tempo era la via principale della città di Tirana, un lungo vialone che andava da piazza Scanderbeg fino alla stazione ferroviaria). Mi volevo infatti recare al Dipartimento Etnografico da Rrok Zojzi verso la Via di Elbasan. Quando arrivai in piazza, davanti alla moschea e al Vecchio Bazar di Tirana, incontrai un ragazzo di Scutari, anch’egli giovane come me.
“Cosa ci fai qui a Tirana Zef?”
“Vivo qua da un po’ di tempo.”
“Ma hai saputo cosa è successo?”
“Che cosa è successo?”
“Io che ho dormito in albergo so già tutto mentre tu che vivi qua ancora no?!”
“Ma di cosa si tratta? Che cosa è successo, dai, su, parla!”
“All’ambasciata Sovietica hanno fatto un attentato pare abbiano gettato una bomba(nota lunga arresto nonno Jonuz Kaceli). Dicono che abbia fatto dei danni. Come fai a non saperlo? La scorsa notte hanno arrestato più di 700 persone: alcuni di loro li hanno portati dritti al plotone di esecuzione con processo-farsa lampo, e verdetto di morte per fucilazione. Non si sa cosa succederà agli altri arrestati. Gli arresti continuano. Se dessi retta a me tu dovresti sparire immediatamente di qui. Inseguono e arrestano tutti coloro che sono facilmente sospettabili o precedentemente implicati, e tu ti sei già fatto i tuoi anni di carcere.”
Quando ci salutammo decisi di andarmene senza prendere le mie povere cose, senza nemmeno la valigia con gli abiti e senza salutare nessuno… Mi incamminai verso il monumento di bronzo che porta a quel Partigiano Sconosciuto, il famoso Milite Ignoto che col suo pugno alzato mi parve si fosse lanciato anch’egli all’inseguimento contro di me. Voltai a sinistra e camminai verso la periferia della città tra le campagne, oltre la stazione ferroviaria. Era una giornata molto fredda e la terra ghiacciata scricchiolava sotto i piedi per la brina. Camminai per le campagne perché temevo che se avessi preso la strada provinciale, mi avrebbero inseguito in macchina. Camminai senza mai fermarmi fino a mezzogiorno circa… finché sbucai sulla strada, dopo aver superato il villaggio di Vora; ormai mi trovavo oltre il bivio, in direzione di Scutari. Per mia fortuna vedendo il mio braccio alzato, si fermò una camionetta. Verso le tre e mezza bussai alla porta del Convento Francescano di Scutari. Venne ad aprirmi padre Mark Papaj.
“Ma tu cosa pensi di fare? Sei mica impazzito a tornare?”
“Padre, sì, sono andato via da Tirana, hanno arrestato tantissime persone che verranno fucilate.” “Pensa che anche qua hanno fatto lo stesso: hanno arrestato padre Marin, padre Marjan, padre Viktor e perfino padre Ferdinand che non ha mai fatto male ad una mosca. Ci sono solo io con padre Justin paralizzato. Hanno chiesto anche di te e dove ti trovavi. Anche padre Zef Gila lo hanno prelevato dal suo villaggio. Presto, sparisci, non devono vederti qua, altrimenti sei finito!”
“Padre, c’è qualcosa da mangiare? Non mangio da ieri sera ed oggi ho camminato tutto il giorno da Tirana fino a Vora.”
“Certo, certo, qualcosa c’è. Entra pure. Ho le razioni di quelli che sono stati arrestati ieri. C’è del pane e un po’ di formaggio. Non ho altro; tieni anche questi pochi soldi, sono pochi ma li divido con te, potrebbero servirti per il viaggio. Vattene, e non ti far più vedere, ma abbi cura di te! Che il Signore ti accompagni! Che Dio te la mandi buona e ti assista fratello!”
Presi quei pochi spiccioli di lek (oggi sarebbero 2 euro all’incirca) e mi diressi verso Melgushë da mio zio. Camminando, pensavo tra me e me: a quanto pare è detto che questa strada io la percorra sempre col cuore triste.
A casa dello zio arrivai in piena notte. Mi accolsero con la tristezza nel cuore. Più tardi lo zio mi chiese:
“Da dove arrivi, figliolo?”
“Da Tirana” – risposi.
“Hai sentito che hanno arrestato padre Marin, padre Marjan e padre Ferdinand che oltre a dir messa non sa fare altro nella vita? E anche don Zef Gila!”
“Sì, ho saputo.”
“Tu cosa pensi di fare?”
“Ad essere sinceri non ne ho proprio idea…”
“Ma se tu non lo sai chi può saperlo allora?”
“Per ora solo Dio.”
Trascorsi tutta la notte pensando a cosa fare e a mettere legna nel camino. Ogni pensiero un ceppo di legno nel fuoco.
All’alba venne mio cugino e mi chiese che cosa avessi deciso di fare. Gli dissi che avevo bisogno che mi accompagnasse da mia madre sul monte Renc ma senza passare per Shen Gjin (nota geo San Giovanni d’Adua) bensì percorrendo le strade montane del Kakarriq e costeggiando la palude. Mai avrei voluto che mi vedesse qualcuno.
“Allora alzati e partiamo.”
La luce ci colse sui sentieri del monte Kakarriq. Camminavamo senza fretta, facendo bene attenzione a non incrociare nessuno. Riposammo un po’ prima di arrivare a costeggiare la palude, anche per vedere se ci fosse qualcuno dei miei fratelli intento a pescare. Durante la pausa mio cugino Ndou (ndt Antonio)mi chiese:
“Ancora non mi hai detto che cosa vuoi fare. Non è che hai in mente di fuggire in Jugoslavia?”
“Ascolta, Ndou” – gli dissi – “io non ci penso proprio ad andare in Jugoslavia. Tu capisci bene che oggi io sono in pericolo, e proprio per questo sono andato via da Tirana e da Scutari. Non voglio andare in Jugoslavia perché le cose stanno come qua: la maggior parte degli albanesi che sono andati là, gli jugoslavi li hanno catturati, portati in carcere e ai campi di lavoro, oppure li obbligano a passare di qua come ribelli (nota heronjtë diversantët desantët). Mi viene il dubbio che questo sia un doppio gioco di entrambe le parti, sia quella albanese che quella jugoslava, per far fuori quelli che non vogliono il comunismo, per uccidere quelli che sono scomodi per loro. Io voglio sì andarmene, ma non in Jugoslavia. Io voglio andare in Occidente, dove l’uomo è libero. Se tu volessi, potresti aiutarmi col tuo migliore amico che ha un peschereccio ed entra in mare aperto navigando in acque lontane.”
Ndou rimase senza parole. Non disse più nulla. L’altra sponda era a due chilometri e mezzo da noi. Vide da lontano un uomo con una barchetta e lo chiamò. Tre volte lo chiamò per nome secondo l’uso dei montanari: “Oh Pjeter Gjetja!” E al terzo tipico richiamo, quello rispose. Allora mio cugino con lo stesso tono gli disse di venire verso di noi a prendere un amico. Era l’imbrunire e il barcaiolo, che vidi poi essere mio fratello, venne verso di noi con la sua barca. Appena mi vide disse:
“Ma Ndou, perché mi dici un amico e non mi dici che è mio fratello?”
Mio cugino gli disse che egli ben sapeva che io ero andato via di casa da quando avevo 5 anni e ogni volta, prima dal collegio, poi dalla scuola e poi dalla prigione, andavo da loro a trovarli sempre come fossi un buon amico di cui loro gradivano le visite.
Quando giungemmo sull’altra riva era buio. Le canne della palude impedivano l’avanzamento della barchetta nell’acqua. Durante il viaggio Ndou disse a mio fratello: “Senti, Pjeter, il nostro Prekë (ndt nome di battesimo di padre Zef Pllumi) fra’ Zef è in grosso pericolo e non vuole vedere né incontrare nessuno. Dunque – gli chiese – raccomanda a tutti in famiglia di non dire nulla a nessuno e di non fare parola del suo arrivo. Sai bene come stanno le cose. Ed è meglio che io ti dica certe cose qua nel segreto totale della palude, dove è difficile che qualcuno ci ascolti, mentre è più facile che qualcuno ci senta nei sentieri della montagna, ormai piena di spie e trappole.”
Dopo queste parole il viaggio continuò in totale silenzio finché arrivammo a casa.
Mio fratello si mise in testa al corteo e così il nostro cane Cub non si mise ad abbaiare e venne a cercare le nostre carezze. Quando aprimmo la porta i miei familiari erano tutti accanto al fuoco. Ci abbracciammo e negli occhi di tutti c’erano lampi di gioia, soprattutto in quelli commossi di mamma e papà. Quella notte giocai con tutti i miei nipoti come se il mio cuore non celasse dolore e preoccupazione. Dopo cena andammo ognuno nella propria stanza a dormire. Quando mi svegliai al mattino, mi parve che tutti mi osservassero con uno sguardo diverso: triste e curioso allo stesso tempo. La notte aveva fatto il suo dovere… Mi accorsi anche che qualcuno aveva parlato. Al mondo non ci sono segreti: fin dal momento in cui una parola o una storia, esce dalla bocca di uno e viene detta ad un altro, le orecchie di quest’ultimo la fanno propria, e la tengono in testa, ma ecco che inizia a crearsi un gran caos. Si produce una situazione interiore di grande disagio che corrode e corrode perché la parola vuole, deve pretende di uscire… finché, poi, non viene fuori e si sente dire a catena: “Attento, tienilo per te: è un segreto.”
“Vivi, solo per testimoniare” vol II